Schelling

 Allievo filosofico di Fichte, dopo un iniziale fase di adesione al sistema del maestro, dal 1797 al 1799 dipinge tutta una nuova filosofia. Il principio da cui Fichte era partito era l’infinito, il “passo romantico” che destò la storia del pensiero dall’Illuminismo kantiano. E l’infinito è ciò che spiega a un tempo tanto l’Io quanto il non-Io, tanto lo spirito o, se vogliamo, l’umanità, quanto la natura.

Lo sforzo di Schelling, entusiasta ammiratore di questa potente filosofia che aveva fatto i conti tanto con l’Illuminismo quanto con la modernità, è quello di rovesciare questo gesto filosofico. Ciò che stride nelle orecchie di Schelling è il ruolo minoritario che in Fichte spettava alla natura. Che cos’era la natura nella filosofia di Fichte? Un prodotto. E, al massimo, il gran teatro delle azioni morali dell’uomo. Il prezzo da pagare per porre l’Io come centro propulsore, principio di ogni principio, è un sacrificio della natura. È recuperando l’idea di sostanza propria di Spinoza che Schelling arriva allora a (ri)concepire un principio dell’infinità oggettivaLa natura deve avere vita e valore in se stessa, deve avere una razionalità che la governi dall’interno, che la renda autonoma. E tanto l’infinità soggettiva di Fichte quanto quella oggettiva di Spinoza devono essere riunite in un unico principio: l’Assoluto, ovvero l’unità indifferenziata tanto di soggetto quanto oggetto, tanto di spirito quanto di natura, tanto di ideale quanto di reale. Da qui la necessità di fondare tanto una filosofia della natura quanto una filosofia dello spirito.

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